CORTE DI APPELLO DI GENOVA 
                            Sez. I Civile 
 
    La Corte, composta dai magistrati: 
    Dott. Maria Teresa Bonavia, Presidente 
    Dott. Maria Margherita Zuccolini, Consigliere 
    Dott. Massimo Caiazzo, Consigliere rel. 
    ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento n. 370 R.G.
del 2014 promosso da  Chiapparelli  Paolo  (CHPPLA57E24H501Q)  difeso
dagli avv.ti Marco Selvaggi e Cristina Locaioni - Ricorrente. 
    Contro 
    Banca D'Italia Difesa dagli avv. Stefania Ceci e Giovanni Lupi 
    Abbacus Sim, Non costituita - Resistenti. 
    Chiapparelli Paolo, gia' sindaco effettivo della societa' Abbacus
Sim, con sede in Genova, dal 29/3/2007 al 18/10/2012, data in cui  ha
rassegnato le proprie dimissioni, ha proposto opposizione avverso  il
provvedimento di applicazione di sanzioni amministrative  emesso  nei
suoi confronti dal Governatore  della  Banca  d'Italia  con  delibera
dell'8/4/2014 ai sensi dell'art. 195 Tuf. 
    Nella  narrativa  il  ricorrente  ha  fatto  riferimento  a   due
ispezioni disposte dalla Banca d'Italia nei confronti di Abbacus Sim.
La prima, tra il dicembre 2011 e il gennaio 2012, che aveva avuto  un
esito parzialmente sfavorevole, avendo la Banca d'Italia  evidenziato
l'esigenza di potenziare l'organizzazione in materia di  controlli  e
di rendere piu' incisiva l'azione del collegio sindacale, la  seconda
occasionata  dal   decesso   per   suicidio   di   Paganini   Marana,
vicepresidente di Abbacus Sim, all'esito della  quale  e'  stato  poi
promosso il procedimento sanzionatorio amministrativo conclusosi  con
il provvedimento impugnato. 
    In particolare sono state  rilevate,  dalla  Banca  d'Italia,  le
seguenti irregolarita': 
    1. carenze nell'organizzazione e nei controlli interni  da  parte
di  componenti  ed  ex   componenti   il   disciolto   Consiglio   di
Amministrazione (art. 6, 2° bis co., d.lgs. 58/98; parte 2,  tit.  I,
Regolamento B.I. e Consob 29.10.07); 
    2. carenze nei controlli da parte di componenti ed ex  componenti
il disciolto Collegio sindacale (art. 6,  2°  bis  co.,  d.lgs.58/98;
parte 2, tit. I, Regolamento B.T. e Consob 29.10.07). 
    L'accertamento ha condotto all'irrogazione di sanzioni a tutti  i
predetti soggetti. 
    Il  ricorrente,  nell'impugnare  il  provvedimento  della   Banca
d'Italia, ha in primo luogo  sollevato  eccezione  di  illegittimita'
costituzionale degli artt. 190 e 195 D.Lgs 58/98  per  contrasto  con
l'art. 6 § 1 della Convenzione dei diritti  dell'uomo,  in  relazione
all'art. 117 Cost. 
    A sostegno della propria  eccezione  ha  richiamato  la  sentenza
4/3/2014 della Corte  EDU,  la  quale  avrebbe  accertato  la  natura
sostanzialmente penale delle sanzioni  previste  dall'art.  190  Tuf,
anche se qualificate amministrative dal diritto interno, sulla scorta
della  propria  consolidata  giurisprudenza,  che  a  partite   dalla
sentenza 8/6/76, Engel e altri contro Paesi Bassi, ha  elaborato,  in
tale prospettiva, alcuni parametri alternativi  di  valutazione,  che
investono la qualificazione  giuridica  della  misura  da  parte  del
diritto nazionale, la natura della sanzione e il grado di severita'. 
    Ha   richiamato   altresi'   la   giurisprudenza   della    Corte
Costituzionale,  la  quale  avrebbe   stabilito   che   le   sanzioni
amministrative,   qualificate   penali    dalla    CEDU    ai    fini
dell'applicazione dell'art. 6 della Convenzione, devono  considerarsi
penali anche per l'ordinamento interno. 
    Cio' premesso, ha sostenuto che l'art. 195,  70  comma  Tuf,  nel
prevedere che la Corte d'Appello decide sull'opposizione in camera di
consiglio, e' in contrasto con l'art.6 della Convenzione dei  diritti
dell'uomo che prescrive la pubblicita' del procedimento. 
    Ha sostenuto altresi' che i commi 4, 5, 6 e 7 dell'art. 195  sono
costituzionalmente  illegittimi  per  contrasto  con  l'art.3   della
Costituzione in quanto, pur  avendo  natura  di  norme  sanzionatorie
penali, prevedono una tutela giudiziaria  irragionevolmente  limitata
ad un unico grado di merito, oltretutto con  rito  camerale;  inoltre
perche' la sanzione e' irrogata dallo stesso organo che ha  posto  le
norme di procedura e che ha provveduto all'istruttoria e  perche'  la
riduzione delle garanzie di difesa non e' funzionale alla  tutela  di
altri interessi di rilievo costituzionale. 
    Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente  ha  eccepito
la nullita' del provvedimento per violazione dell'art.  3  L.  241/90
per essere state ivi acriticamente recepite  le  motivazioni  esposte
nella proposta di applicazione delle sanzioni. 
    Con il terzo motivo ha sostenuto la  nullita'  del  provvedimento
per indeterminatezza e genericita' delle  contestazioni.  Secondo  il
ricorrente il  provvedimento  si  fonda  sulla  violazione  di  norme
generali, di amplissima previsione (l'art. 6 comma 2-bis del Tuf,  il
regolamento Banca d'Italia e Consob, l'art. 190 del  Tuf)  richiamate
in modo del tutto generico,  in  contrasto  con  il  principio  della
tipicita'  delle  condotte,  senza  l'indicazione  del  comportamenti
sanzionati  e  delle  disposizioni  in  concreto  violate.  Da   cio'
deriverebbe,  altresi',  la  violazione  del   principio   di   leale
collaborazione e della effettivita' del contraddittorio. 
    Il ricorrente ha poi eccepito, con il quarto motivo, la  nullita'
derivata  del  provvedimento  in  ragione  della  genericita'   delle
violazioni contestate con  l'iniziale  atto  di  contestazione  degli
addebiti, che avrebbe inciso pregiudizievolmente  sull'esercizio  del
diritto  di  difesa  da  parte  dei  soggetti   incolpati   e   sulla
effettivita'  del  contraddittorio.  Siffatta   genericita'   sarebbe
desumibile  dal  fatto  che  le  medesime  contestazioni  sono  state
formulate nei confronti  di  tutti  i  componenti  del  consiglio  di
amministrazione e del collegio sindacale di Abbacus  Sim,  totalmente
prescindendo dalle funzioni  svolte,  dalla  titolarita'  di  deleghe
operative, dall'assegnazione di compiti particolari e dal periodo  di
svolgimento dell'incarico. Il particolare ha sostenuto che  nell'atto
di contestazione non vi fosse alcun riferimento a fatti o condotte ad
esso ricorrente specificamente addebitabili 
    Nel quinto motivo e' denunciata la nullita' del provvedimento per
violazione  dei  principi  di  proporzionalita',   ragionevolezza   e
legittimo affidamento. Premessa  la  sostanziale  identita'  tra  gli
oggetti degli accertamenti ispettivi compiuti  dalla  Banca  d'Italia
alla fine del 2011 e alla fine del 2012, ha sostenuto in primo  luogo
il ricorrente che il  procedimento  sanzionatorio,  avviato  dopo  la
seconda  ispezione,  sarebbe  tardivo,  essendosi   gia'   verificato
l'effetto preclusivo per la scadenza del termine di 180 giorni  dalla
prima ispezione; in secondo  luogo  che  la  Banca  d'Italia  avrebbe
violato in principio del ne bis in idem e avrebbe comunque omesso  di
valutare le misure adottate dall'organo amministrativo e dal Collegio
sindacale  della  societa'  a  seguito  della  prima  ispezione.   In
particolare il ricorrente, dopo aver elencato a fini esemplificativi,
numerose iniziative assunte da Abbacus in ottemperanza alle richieste
di Bankitalia al fine di eliminare alcune criticita'  rilevate  nella
prima ispezione, ha sostenuto che tale attivita'  sarebbe  stata  del
tutto ignorata  anche  nella  valutazione  dell'elemento  soggettivo,
nonostante i richiami contenuti delle proprie controdeduzioni. 
    Nel merito il ricorrente, in relazione alla contestata violazione
degli obblighi imposti dall'art. 2391 cod.civ.  agli  amministratori,
ha  sostenuto  che  la  responsabilita'  del  collego  sindacale  non
sarebbe, in relazione a tale fattispecie, apprezzabile in mancanza di
contestazioni di specifiche omissioni; analogamente la  contestazione
relativa  alla  mancata  valutazione  dei  rischi   derivanti   dalla
sovrapposizione di ruoli e incarichi avrebbe come destinatari i  soli
amministratori e le contestazioni indirizzate  ai  sindaci  sarebbero
generiche e svincolate dai risultati dell'ispezione. 
    Sulla base di analoghe argomentazioni il ricorrente ha  censurato
il provvedimento impugnato nella parte in cui ha sanzionato i sindaci
per il rilievo di  cui  al  punto  4,  di  cui  sarebbe  destinatario
Giovanni Paganini Marana, e quelli  di  cui  al  punto  5,  attinenti
all'attivita' di un soggetto estraneo  ad  Abbacus  Sim,  alla  quale
l'accomunerebbe la sola presenza del Marana. 
    In relazione agli ulteriori rilievi il ricorrente  ha  denunciato
l'infondatezza  del  provvedimento,  il   difetto   di   istruttoria,
l'assenza dei presupposti, la genericita' degli addebiti. 
    Il ricorrente ha poi denunciato la nullita' del provvedimento per
essersi  adeguato  acriticamente  alla  proposta  in  relazione  alle
sanzioni comminate, senza alcuna autonoma  valutazione,  evidenziando
altresi' che la  sanzione  applicata  nei  suoi  confronti  e'  stata
motivala, nella proposta, con la duplice carica da esso  Chiapparelli
rivestita all'interno dell'Abbacus Sim e della Auditors, di  per  se'
inidonea a giustificare  da  decisione  adottata.  A  sostegno  della
propria tesi il ricorrente ha evidenziato la mancata  indicazione  di
specifici fatti ai quali ricondurre la responsabilita' ascrittagli  e
la mancata considerazione di situazioni riconducibili  alla  espressa
previsione dell'art.24 del Regolamento della Banca d'Italia  e  della
Consob, che prevede i conflitti di interesse rilevanti. 
    Con l'ultimo motivo ha denunciato la sproporzione delle  sanzioni
irrogate, la  cui  determinazione  in  misura  piu'  di  venti  volte
superiore  al  minimo  edittale  non  sarebbe  sostenuta  da   alcuna
motivazione, in violazione dell'art.  11  L.  689/81,  che  indica  i
criteri soggettivi ed oggettivi della quantificazione. 
    La Banca d'Italia si  e'  costituita  nel  presente  procedimento
contestando la fondatezza dei motivi di impugnazione del ricorrente. 
    In relazione alle eccezioni di illegittimita'  costituzionale  ha
evidenziato in primo luogo che la citata sentenza 4/3/2014 della Cedu
non ha sancito, come sostenuto dal ricorrente, la natura penale delle
sanzioni di cui all'art. 190 Tuf in quanto ha preso in  esame  quelle
previste dall'art. 187-ter per atti di manipolazione del mercato.  In
secondo  luogo  ha  rimarcato  che  il  carattere   penale   di   una
disposizione non qualificata come tale dall'ordinamento nazionale  e'
connesso alla gravita' della sanzione cui e' in astratto  esposta  la
persona interessata, che nelle ipotesi disciplinate dall'art. 187-ter
e',  nel  massimo,  di  5.000.000  di  Euro,  in  talune  circostanze
suscettibile di essere elevato fino a dieci volte, con previsione  di
gravi sanzioni accessorie, per cui sarebbe arbitraria la pretesa  del
ricorrente di estendere i principi enunciati dalla CEDU alle sanzioni
oggetto  del  provvedimento  impugnato,  diverse  sia  per  l'entita'
dell'importo, sia per l'assenza di  misure  accessorie,  sia  perche'
solo le violazioni sanzionate dall'art. 187-ter rilevano anche  sotto
il profilo penale. La resistente ha anche richiamato il principio  di
stretta legalita' di cui all'art.25 della Costituzione per  sostenere
che la natura penale di una  sanzione  e'  necessariamente  collegata
alla sua qualificazione come tale da parte dell'ordinamento. 
    Inoltre per la resistente la Corte Edu ha precisato che l'art.  6
della Convenzione non esige in tutti i casi  lo  svolgimento  di  una
pubblica udienza, dovendosi valutare in concreto se la  sua  mancanza
implica una compressione  del  diritto  di  difesa  dell'interessato,
nella  fattispecie  insussistente  e  comunque   non   allegato   dai
ricorrente. 
    Sulla base degli stessi motivi - in particolare negando la natura
penale delle sanzioni oggetto del provvedimento impugnato - la  Banca
d'Italia ha sostenuto l'infondatezza della questione di  legittimita'
costituzionale dell'art. 195 commi 4, 5, 6 e 7 Tuf per contrasto  con
l'art. 3 Cost. Ha poi negato,  richiamando  la  giurisprudenza  della
Corte  Suprema,  che  possa  integrare  una   lesione   dei   diritti
dell'Opponente il fatto che la sanzione  sia  irrogata  dalla  stessa
Autorita' cui e' affidata l'istruttoria. 
    La resistente ha infine contestato la fondatezza, nel merito,  di
ciascuno dei motivi di impugnazione. 
    In  relazione  alla  questione  di  legittimita'   costituzionale
sollevata dal ricorrente, rileva la Corte che  la  sentenza  4/3/2014
della CEDU non riguarda gli articoli 190 e seguenti del D.Lgs  58/98.
Nondimeno  la  questione  appare  rilevante  e   non   manifestamente
infondata. 
    Nel caso esaminato dalla Corte EDU, i ricorrenti, ai quali  erano
state  applicate  dalla  CONSOB  sanzioni  amministrative  ai   sensi
dell'art.  187-ter  del  D.Lgs  58/98,  erano  stati   sottoposti   a
procedimento penale e condannati in grado di  appello.  La  Corte  ha
ritenuto, nella sentenza menzionata, che il procedimento davanti alla
Consob disciplinato dal regolamento congiunto del  22  ottobre  2013,
che si applica anche ai procedimenti che  si  svolgono  davanti  alla
Banca d'Italia - non avesse soddisfatto le esigenze di equita'  e  di
imparzialita' oggettiva richieste dall'articolo 6  della  Convenzione
EDU e che la mancanza di una pubblica  udienza  nel  procedimento  di
opposizione davanti alla Corte di Appello di Torino  costituisse  una
Violazione del § 1 del medesimo articolo;  ha  ritenuto  inoltre  che
l'avvio di un procedimento penale per gli stessi fatti oggetto  delle
sanzioni amministrative integrasse una  violazione  del  fondamentale
principio del ne bis in idem, sancito dall'art. 4 del Protocollo n. 7
della Convenzione. 
    Tali affermazioni traggono origine da una preventiva  valutazione
della natura delle sanzioni  previste  dall'art.  187-ter  del  D.Lgs
58/98, le quali,  benche'  definite  amministrative  dall'ordinamento
nazionale, sono da considerarsi, a tutti gli effetti,  come  sanzioni
penali, in ragione della loro rilevante severita',  della  previsione
di sanzioni accessorie, delle loro  ripercussioni  complessive  sugli
interessi del condannato. Siffatta valutazione e' inoltre  rafforzata
dallo scopo chiaramente repressivo e preventivo rintracciabile  nella
ratio della disciplina, che  si  salda  con  quello  riparatorio  dei
pregiudizi di natura finanziaria cagionati  dalla  condotta,  nonche'
dalla  correlazione  delle  sanzioni  alla  gravita'  della  condotta
ascritta piuttosto che al danno provocato agli investitori. 
    Il giudizio della Corte di Strasburgo si pone nella scia  di  una
consolidata  giurisprudenza,  dalla  stessa  Corte  richiamata  nella
propria sentenza, che, a partire dalla pronuncia "Engel  e  altri  c.
Paesi Bassi" dell'8 giugno 1976, ha fissato alcuni criteri  utili  ad
accertare  la  sussistenza  di  una  «accusa  in   materia   penale»,
stabilendo  che  occorre  avere  riguardo:  1)  alla   qualificazione
giuridica interna, 2) Alla natura dell'infrazione, 3) alla  natura  e
al  grado  di  severita'  della  sanzione.  Si  tratta   di   criteri
alternativi e non cumulativi, per cui affinche' si possa  parlare  di
accusa in materia penale ai sensi dell'articolo 6 § 1, e' sufficiente
che  la  fattispecie  sia  qualificata  come  penale  rispetto   alla
Convenzione o abbia esposto l'interessato a una  sanzione  che,  "per
natura e livello di gravita'", rientri in linea generale  nell'ambito
della "materia  penale".  L'alternativita'  dei  criteri  ermeneutici
enucleati non impedisce tuttavia di adottare  un  approccio  unitario
allorche' l'analisi separata di ciascuno  di  essi  non  permette  di
arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di  una
«accusa in materia  penale»  (sentenza  "Bendenoun  c.  Francia"  del
24/2/1994). 
    Secondo la Banca d'Italia il giudizio della Corte  di  Strasburgo
sulla natura sostanzialmente penale delle sanzioni previste dall'art.
187-ter del D.Lgs 58/98 non sarebbe applicabile alle sanzioni oggetto
del  presente  procedimento,  essendo   quelle   comminate   per   la
manipolazione del mercato molto piu' gravi, oltre che accompagnate da
misure accessorie. 
    Ritiene il Collegio che la maggiore afflittivita' delle  sanzioni
previste dall'art. 187-ter sia incontestabile ma  non  significativa,
in quanto la loro misura non costituisce un parametro di  riferimento
per l'applicazione dei criteri stabiliti  dalla  Corte  Edu.  Non  e'
dubbio che la gravita'  delle  sanzioni  previste  dall'art.  187-ter
abbia  reso  agevole  alla  Corte  il  riconoscimento  della   natura
sostanzialmente penale della norma;  tuttavia,  se  si  esaminano  le
precedenti  pronunce  in  materia,  si  constata  che   la   medesima
qualificazione  e'   stata   data,   sul   presupposto   della   loro
afflittivita', a disposizioni che prevedono sanzioni  di  gran  lunga
piu' lievi. 
    Dei tre criteri enucleati  dai  giudici  di  Strasburgo  ai  fini
dell'accertamento  della  sussistenza  di  una  "accusa  in   materia
penale", il primo e' applicabile  solo  in  positivo,  in  quanto  la
qualificazione   di   una   norma   come   penale   e'    sufficiente
all'operativita' delle garanzie previste  dalla  Convenzione,  mentre
una diversa qualificazione non impedisce  alla  Corte  di  stabilirne
l'applicabilita',   non   potendo    ovviamente    consentirsi    che
l'effettivita' delle tutele sia correlata ad un'operazione  meramente
classificatoria posta in essere da singoli Stati. Il secondo criterio
attiene, almeno stando alla sua applicazione  nel  caso  Engel,  alla
sfera di operativita' della disposizione, essendo stato ivi osservato
che la norma penale e'  rivolta  alla  generalita'  dei  cittadini  a
differenza di quella disciplinare, che  regola  la  condotta  di  una
cerchia  ristretta  di  individui,  assoggettati  ad  un  particolare
ordinamento. Il  terzo  criterio  presenta  indubbiamente  una  certa
indeterminatezza allorche' la sanzione sia di  carattere  pecuniario,
in quanto l'esame della giurisprudenza della Corte di Strasburgo  non
consente di individuare parametri di riferimento certi. 
    Nel caso Ozturc c. Germania  e  nel  caso  Lutz  c.  Germania  si
trattava della irrogazione di non gravi sanzioni pecuniarie  conciate
ad infrazioni delle norme sulla circolazione stradale,  in  relazione
alle quali tuttavia la Corte ha ritenuto operanti le  garanzie  della
Convenzione per la funzione, ad un  tempo  preventiva  e  repressiva,
delle norme sanzionatorie, in quanto dirette  a  dissuadere  e  nello
stesso tempo a reprimere. 
    Il Caso Dubus e' per certi versi simile alla  vicenda  sottoposta
all'esame di questo Collegio nel 1997 la  societa'  ricorrente  Dubus
s.a. fu oggetto di un controllo da parte della Commissione  bancaria,
ordinato dalla Banca di Francia. Il controllo  pose  in  evidenza  un
certo  numero  di  miglioramenti  da   apportare   all'organizzazione
amministrativa e contabile della societa'. Nel  2000  la  Commissione
bancaria ordino' una  nuova  ispezione,  a  seguito  della  quale  la
Segreteria generale della Commissione bancaria invio' alla ricorrente
una serie di raccomandazioni, chiedendole  di  regolarizzare  la  sua
situazione con riferimento alle disposizioni  regolamentari  relative
al capitale minimo dei fornitori  di  investimento.  Successivamente,
sulla base del  rapporto  definitivo  di  ispezione,  la  Commissione
bancaria decise di aprire una procedura  disciplinare  nei  confronti
della ricorrente, che si concluse con l'irrogazione di  una  nota  di
biasimo. La Corte Edu, nel riconoscere la natura penale  della  norma
sanzionatrice, ha evidenziato che in  astratto  la  societa'  sarebbe
potuta incorrere nella cancellazione o in  una  sanzione  pecuniaria,
misure  che  avrebbero  potuto  provocare   conseguenze   finanziarie
rilevanti e che comunque la nota di biasimo era  di  natura  tale  da
ledere il credito della societa' sanzionata. 
    Nel caso Nicoleta Gheorghe c. Romania, alla ricorrente era  stata
inflitta una sanzione amministrativa pari a circa 17  Euro  per  aver
turbato la tranquillita' degli altri locatari dell'immobile nel quale
viveva. La Corte aveva rilevato che la  norma  giuridica  violata  si
proponeva di mantenere la pace tra i vicini di casa; in quanto  tale,
si rivolgeva a tutti i cittadini e non a un gruppo  specifico  avente
un particolare statuto. Inoltre, l'ammenda inflitta  alla  ricorrente
non era finalizzata  alla  riparazione  pecuniaria  di  un  danno  ma
essenzialmente diretta ad impedire il ripetersi di atti simili. Aveva
quindi un carattere punitivo, quale contraddistingue generalmente  le
sanzioni di carattere penale. 
    Dai  precedenti  menzionati  e  in  generale   dall'esame   della
giurisprudenza della Corte di Strasburgo si  evince  un  orientamento
diretto ad allargare  l'area  di  applicabilita'  dell'art.  6  della
Convenzione,  sebbene,  talvolta,  con  motivazioni  non  del   tutto
rigorose e coerenti. 
    Ritiene il Collegio che, ai  fini  della  valutazione  della  non
manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
sollevata, non  possa  escludersi,  alla  luce  della  giurisprudenza
richiamata, l'applicabilita' dei principi  posti  dall'art.  6  della
Convenzione al procedimento previsto dall'art. 195 D.Lgs n.58/98.  Le
non lievi sanzioni pecuniarie previste dall'art. 190 del D.Lgs  58/98
(fino ad Euro 250.000,00) non sono infatti correlate alla riparazione
di un pregiudizio economico ma hanno natura dissuasiva e repressiva e
sono indubbiamente idonee ad incidere gravemente sul  patrimonio  dei
soggetti colpiti e sulla  vita  e  la  capacita'  patrimoniale  delle
societa' cui detti soggetti appartengono, in quanto  responsabili  in
solido e quindi soggette, nei casi  in  cui  siano  sanzionati,  come
nella fattispecie, tutti gli amministratori e i sindaci, al pagamento
di somme anche di molto superiori al massimo edittale. 
    L'applicabilita'  dell'art.  6  della  Convenzione  comporta   la
necessita' di verificare se il procedimento  previsto  dall'art.  195
D.Lgs n.58/98, che stabilisce, in sede di impugnazione  davanti  alla
Corte  di  Appello,  la  decisione  in  camera  di   consiglio,   sia
compatibile con le garanzie stabilite dall'art. 6 della  Convenzione,
segnatamente con il principio della pubblicita' delle udienze. 
    Nella sentenza Grande Stevens c. Italia la Corte Edu, pur  avendo
ritenuto che il  procedimento  davanti  alla  Consob  non  garantisse
pienamente il diritto di difesa degli accusati, ha evidenziato che il
rispetto dell'articolo 6 della Convenzione non e'  incompatibile  con
la  possibilita'  che  una  pena   sia   inizialmente   inflitta   da
un'autorita' amministrativa, purche' la  sua  decisione  "subisca  il
controllo ulteriore di un organo giudiziario dotato di  pieni  poteri
di giurisdizione", quale indubbiamente e' da  considerarsi  la  Corte
d'Appello di Torino. Tuttavia,  essendo  la  Corte  Edu  giunta  alla
conclusione che nessuna udienza pubblica si e'  svolta  davanti  alla
Corte di Appello di Torino e che la Corte di Cassazione, davanti alla
quale si e' tenuta una pubblica udienza, non  ha  le  competenze  per
conoscere il merito della causa, ha concluso per la sussistenza della
lamentata violazione dell'art. 6 § 1 della Convenzione, per il  quale
"Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata  equamente,
pubblicamente  ed  entro  un  termine  ragionevole  da  un  tribunale
indipendente e imparziale". 
    In realta' la Corte, nella  propria  motivazione,  ha  affermato,
richiamando alcuni precedenti, che  l'obbligo  di  tenere  un'udienza
pubblica  non  e'  assoluto  e  che   l'articolo   6   non   richiede
necessariamente la tenuta di un'udienza in tutti i procedimenti,  non
essendo tale formalita' necessaria nelle  "cause  che  non  sollevano
questioni di credibilita' o che non suscitano controversie sui  fatti
rendendo necessario un confronto orale, e per le  quali  i  tribunali
possono pronunciarsi in modo equo  e  ragionevole  sulla  base  delle
conclusioni scritte delle parti e del resto del  dossier",  anche  se
"il rigetto di una domanda che tende alla tenuta  di  un'udienza  non
puo' essere  giustificata  se  non  molto  raramente".  Ha  nondimeno
ritenuto che nel caso sottoposto al suo giudizio  l'udienza  pubblica
fosse necessaria. 
    E' evidente una certa confusione, nel ragionamento  della  Corte,
tra il principio dell'oralita', posto a presidio  della  effettivita'
del contraddittorio  e  della  piena  realizzazione  del  diritto  di
difesa, cui fa riferimento,  nella  sostanza,  la  motivazione  della
sentenza quando tratta della necessita' di un confronto orale, ed  il
diverso  principio  di   pubblicita'   dell'udienza,   che   soddisfa
l'esigenza che la giustizia sia amministrata in modo trasparente. 
    La commistione tra i due principi si manifesta  peraltro  sovente
nella giurisprudenza della Corte Edu. 
    Nella sentenza Lorenzetti c. Italia del 10 aprile 2012  la  Corte
si e' soffermata sulla questione, sottolineando  che  l'art.  6  §  1
della  Convenzione   consacra   il   principio   fondamentale   della
pubblicita' dei dibattimenti giudiziari, il quale "tutela coloro  che
sono sottoposti alla giustizia da una giustizia segreta,  che  sfugge
al controllo pubblico: contribuisce altresi' a mantenere  la  fiducia
della  collettivita'   negli   organi   giudiziari.   Attraverso   la
trasparenza che conferisce all'amministrazione  della  giustizia,  la
pubblicita' aiuta a raggiungere  l'obiettivo  dell'art.  6,  par.  1,
ovvero il processo equo, la cui garanzia figura  tra  i  principi  di
ogni societa' democratica". 
    La motivazione illustra in modo chiaro e consapevole il principio
di pubblicita' delle udienze, sancito dall'art. 6, della Convenzione,
per cui non puo' non suscitare perplessita' il passo successivo,  nel
quale la Corte afferma  che  "un'udienza  pubblica  puo'  non  essere
necessaria, tenuto conto delle Circostanze eccezionali del  caso,  in
particolare quando non sono sollevate questioni di fatto o di diritto
che  non  possono  essere  risolte  sulla  sola  base  del  fascicolo
disponibile o delle osservazioni delle parti", precisando  che  "cio'
avviene  specialmente  quando  si  tratta  di   questioni   altamente
tecniche". E' infatti evidente che la possibilita' che  la  decisione
sia presa sulla base  della  documentazione  acquisita  e  la  natura
tecnica delle questioni controverse sono fatti che non  hanno  alcuna
correlazione con le  esigenze  che  la  pubblicita'  dell'udienza  e'
diretta a soddisfare nella previsione dell'art. 6 della  Convenzione;
le eccezioni alla regola della pubblicita' sono indicate dallo stesso
articolo e sono funzionali  alla  tutela  di  interessi  -  quale  la
morale, l'ordine pubblico, la sicurezza nazionale, la protezione  dei
minori - che trascendono le questioni di fatto o  giuridiche  oggetto
della controversia. 
    Ritiene il Collegio che, dovendosi tenere distinti  il  principio
dell'oralita' e quello della pubblicita' delle  udienze,  ed  essendo
quest'ultimo l'oggetto della tutela predisposta dall'art. 6 § 1 della
Convenzione  Edu,  debba  prescindersi,   nella   valutazione   della
rilevanza e della  non  manifesta  infondatezza  della  questione  di
legittimita'  costituzionale,  da  un   esame   in   concreto   della
possibilita' che un'udienza pubblica non sia  necessaria  in  ragione
delle  questioni  trattate  e  della   completezza   dell'istruttoria
documentale.  In  ogni  caso  non  ricorrono  nella  fattispecie   le
eccezionali condizioni alle quali la Corte Edu ha ricollegato la  non
necessita' dell'udienza pubblica, essendo oggetto  di.  controversia,
cosi' come nel caso Grande Stevens c.  Italia,  questioni  di  fatto,
oltre che giuridiche. 
    Cio' posto, non puo' revocarsi in dubbio la sussistenza  di  seri
problemi di compatibilita' della procedura prevista dall'art. 195 del
D.Lgs 58/98 con i principi stabiliti dall'art. 6 della Convenzione. 
    Secondo     l'insegnamento     della     Corte     Costituzionale
l'ammissibilita' della questione di  legittimita'  costituzionale  di
una norma presuppone che il giudice dimostri di  avere  esaminato  la
possibilita' di una interpretazione tale da renderla compatibile  coi
parametri costituzionali invocati,  laddove  l'univoco  tenore  della
norma segna il confine in presenza del quale lo sforzo interpretativo
deve cedere il passo al sindacato di legittimita' costituzionale (Cfr
sentenze n. 78 del 2012, n. 26 del 2010 e n. 219 del 2008). 
    Nel caso di specie ritiene il Collegio che l'adozione  di  misure
dirette a rendere pubblica l'udienza di discussione  si  scontrerebbe
con la inderogabilita' della  disciplina  dei  riti  processuali.  Il
procedimento in camera di consiglio previsto dall'art. 195 del  D.Lgs
58/98 e'  infatti  per  definizione  un  procedimento  non  pubblico;
oltretutto quello  pubblico  si  articola  a  sua  volta  in  diverse
sottocategorie, l'applicazione di ciascuna delle quali e' rigidamente
regolata dalla legge e  non  puo'  essere  rimessa  alla  scelta  del
giudice. 
    In relazione al requisito  della  rilevanza  si  osserva  che  il
ricorrente, nel sollevare la questione di legittimita' costituzionale
dell'art.  195  per   carenza   del   requisito   della   pubblicita'
dell'udienza davanti alla Corte  di  Appello,  ha  inequivocabilmente
manifestato il proprio interesse  allo  svolgimento  dell'udienza  in
sede di merito secondo la forma pubblica. 
    Sulla base delle considerazioni esposte il presente  procedimento
deve  essere  sospeso  con  trasmissione  degli   atti   alla   Corte
costituzionale.