CORTE DI APPELLO DI GENOVA Sez. I Civile La Corte, composta dai magistrati: Dott. Maria Teresa Bonavia, Presidente Dott. Maria Margherita Zuccolini, Consigliere Dott. Massimo Caiazzo, Consigliere rel. ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento n. 370 R.G. del 2014 promosso da Chiapparelli Paolo (CHPPLA57E24H501Q) difeso dagli avv.ti Marco Selvaggi e Cristina Locaioni - Ricorrente. Contro Banca D'Italia Difesa dagli avv. Stefania Ceci e Giovanni Lupi Abbacus Sim, Non costituita - Resistenti. Chiapparelli Paolo, gia' sindaco effettivo della societa' Abbacus Sim, con sede in Genova, dal 29/3/2007 al 18/10/2012, data in cui ha rassegnato le proprie dimissioni, ha proposto opposizione avverso il provvedimento di applicazione di sanzioni amministrative emesso nei suoi confronti dal Governatore della Banca d'Italia con delibera dell'8/4/2014 ai sensi dell'art. 195 Tuf. Nella narrativa il ricorrente ha fatto riferimento a due ispezioni disposte dalla Banca d'Italia nei confronti di Abbacus Sim. La prima, tra il dicembre 2011 e il gennaio 2012, che aveva avuto un esito parzialmente sfavorevole, avendo la Banca d'Italia evidenziato l'esigenza di potenziare l'organizzazione in materia di controlli e di rendere piu' incisiva l'azione del collegio sindacale, la seconda occasionata dal decesso per suicidio di Paganini Marana, vicepresidente di Abbacus Sim, all'esito della quale e' stato poi promosso il procedimento sanzionatorio amministrativo conclusosi con il provvedimento impugnato. In particolare sono state rilevate, dalla Banca d'Italia, le seguenti irregolarita': 1. carenze nell'organizzazione e nei controlli interni da parte di componenti ed ex componenti il disciolto Consiglio di Amministrazione (art. 6, 2° bis co., d.lgs. 58/98; parte 2, tit. I, Regolamento B.I. e Consob 29.10.07); 2. carenze nei controlli da parte di componenti ed ex componenti il disciolto Collegio sindacale (art. 6, 2° bis co., d.lgs.58/98; parte 2, tit. I, Regolamento B.T. e Consob 29.10.07). L'accertamento ha condotto all'irrogazione di sanzioni a tutti i predetti soggetti. Il ricorrente, nell'impugnare il provvedimento della Banca d'Italia, ha in primo luogo sollevato eccezione di illegittimita' costituzionale degli artt. 190 e 195 D.Lgs 58/98 per contrasto con l'art. 6 § 1 della Convenzione dei diritti dell'uomo, in relazione all'art. 117 Cost. A sostegno della propria eccezione ha richiamato la sentenza 4/3/2014 della Corte EDU, la quale avrebbe accertato la natura sostanzialmente penale delle sanzioni previste dall'art. 190 Tuf, anche se qualificate amministrative dal diritto interno, sulla scorta della propria consolidata giurisprudenza, che a partite dalla sentenza 8/6/76, Engel e altri contro Paesi Bassi, ha elaborato, in tale prospettiva, alcuni parametri alternativi di valutazione, che investono la qualificazione giuridica della misura da parte del diritto nazionale, la natura della sanzione e il grado di severita'. Ha richiamato altresi' la giurisprudenza della Corte Costituzionale, la quale avrebbe stabilito che le sanzioni amministrative, qualificate penali dalla CEDU ai fini dell'applicazione dell'art. 6 della Convenzione, devono considerarsi penali anche per l'ordinamento interno. Cio' premesso, ha sostenuto che l'art. 195, 70 comma Tuf, nel prevedere che la Corte d'Appello decide sull'opposizione in camera di consiglio, e' in contrasto con l'art.6 della Convenzione dei diritti dell'uomo che prescrive la pubblicita' del procedimento. Ha sostenuto altresi' che i commi 4, 5, 6 e 7 dell'art. 195 sono costituzionalmente illegittimi per contrasto con l'art.3 della Costituzione in quanto, pur avendo natura di norme sanzionatorie penali, prevedono una tutela giudiziaria irragionevolmente limitata ad un unico grado di merito, oltretutto con rito camerale; inoltre perche' la sanzione e' irrogata dallo stesso organo che ha posto le norme di procedura e che ha provveduto all'istruttoria e perche' la riduzione delle garanzie di difesa non e' funzionale alla tutela di altri interessi di rilievo costituzionale. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente ha eccepito la nullita' del provvedimento per violazione dell'art. 3 L. 241/90 per essere state ivi acriticamente recepite le motivazioni esposte nella proposta di applicazione delle sanzioni. Con il terzo motivo ha sostenuto la nullita' del provvedimento per indeterminatezza e genericita' delle contestazioni. Secondo il ricorrente il provvedimento si fonda sulla violazione di norme generali, di amplissima previsione (l'art. 6 comma 2-bis del Tuf, il regolamento Banca d'Italia e Consob, l'art. 190 del Tuf) richiamate in modo del tutto generico, in contrasto con il principio della tipicita' delle condotte, senza l'indicazione del comportamenti sanzionati e delle disposizioni in concreto violate. Da cio' deriverebbe, altresi', la violazione del principio di leale collaborazione e della effettivita' del contraddittorio. Il ricorrente ha poi eccepito, con il quarto motivo, la nullita' derivata del provvedimento in ragione della genericita' delle violazioni contestate con l'iniziale atto di contestazione degli addebiti, che avrebbe inciso pregiudizievolmente sull'esercizio del diritto di difesa da parte dei soggetti incolpati e sulla effettivita' del contraddittorio. Siffatta genericita' sarebbe desumibile dal fatto che le medesime contestazioni sono state formulate nei confronti di tutti i componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale di Abbacus Sim, totalmente prescindendo dalle funzioni svolte, dalla titolarita' di deleghe operative, dall'assegnazione di compiti particolari e dal periodo di svolgimento dell'incarico. Il particolare ha sostenuto che nell'atto di contestazione non vi fosse alcun riferimento a fatti o condotte ad esso ricorrente specificamente addebitabili Nel quinto motivo e' denunciata la nullita' del provvedimento per violazione dei principi di proporzionalita', ragionevolezza e legittimo affidamento. Premessa la sostanziale identita' tra gli oggetti degli accertamenti ispettivi compiuti dalla Banca d'Italia alla fine del 2011 e alla fine del 2012, ha sostenuto in primo luogo il ricorrente che il procedimento sanzionatorio, avviato dopo la seconda ispezione, sarebbe tardivo, essendosi gia' verificato l'effetto preclusivo per la scadenza del termine di 180 giorni dalla prima ispezione; in secondo luogo che la Banca d'Italia avrebbe violato in principio del ne bis in idem e avrebbe comunque omesso di valutare le misure adottate dall'organo amministrativo e dal Collegio sindacale della societa' a seguito della prima ispezione. In particolare il ricorrente, dopo aver elencato a fini esemplificativi, numerose iniziative assunte da Abbacus in ottemperanza alle richieste di Bankitalia al fine di eliminare alcune criticita' rilevate nella prima ispezione, ha sostenuto che tale attivita' sarebbe stata del tutto ignorata anche nella valutazione dell'elemento soggettivo, nonostante i richiami contenuti delle proprie controdeduzioni. Nel merito il ricorrente, in relazione alla contestata violazione degli obblighi imposti dall'art. 2391 cod.civ. agli amministratori, ha sostenuto che la responsabilita' del collego sindacale non sarebbe, in relazione a tale fattispecie, apprezzabile in mancanza di contestazioni di specifiche omissioni; analogamente la contestazione relativa alla mancata valutazione dei rischi derivanti dalla sovrapposizione di ruoli e incarichi avrebbe come destinatari i soli amministratori e le contestazioni indirizzate ai sindaci sarebbero generiche e svincolate dai risultati dell'ispezione. Sulla base di analoghe argomentazioni il ricorrente ha censurato il provvedimento impugnato nella parte in cui ha sanzionato i sindaci per il rilievo di cui al punto 4, di cui sarebbe destinatario Giovanni Paganini Marana, e quelli di cui al punto 5, attinenti all'attivita' di un soggetto estraneo ad Abbacus Sim, alla quale l'accomunerebbe la sola presenza del Marana. In relazione agli ulteriori rilievi il ricorrente ha denunciato l'infondatezza del provvedimento, il difetto di istruttoria, l'assenza dei presupposti, la genericita' degli addebiti. Il ricorrente ha poi denunciato la nullita' del provvedimento per essersi adeguato acriticamente alla proposta in relazione alle sanzioni comminate, senza alcuna autonoma valutazione, evidenziando altresi' che la sanzione applicata nei suoi confronti e' stata motivala, nella proposta, con la duplice carica da esso Chiapparelli rivestita all'interno dell'Abbacus Sim e della Auditors, di per se' inidonea a giustificare da decisione adottata. A sostegno della propria tesi il ricorrente ha evidenziato la mancata indicazione di specifici fatti ai quali ricondurre la responsabilita' ascrittagli e la mancata considerazione di situazioni riconducibili alla espressa previsione dell'art.24 del Regolamento della Banca d'Italia e della Consob, che prevede i conflitti di interesse rilevanti. Con l'ultimo motivo ha denunciato la sproporzione delle sanzioni irrogate, la cui determinazione in misura piu' di venti volte superiore al minimo edittale non sarebbe sostenuta da alcuna motivazione, in violazione dell'art. 11 L. 689/81, che indica i criteri soggettivi ed oggettivi della quantificazione. La Banca d'Italia si e' costituita nel presente procedimento contestando la fondatezza dei motivi di impugnazione del ricorrente. In relazione alle eccezioni di illegittimita' costituzionale ha evidenziato in primo luogo che la citata sentenza 4/3/2014 della Cedu non ha sancito, come sostenuto dal ricorrente, la natura penale delle sanzioni di cui all'art. 190 Tuf in quanto ha preso in esame quelle previste dall'art. 187-ter per atti di manipolazione del mercato. In secondo luogo ha rimarcato che il carattere penale di una disposizione non qualificata come tale dall'ordinamento nazionale e' connesso alla gravita' della sanzione cui e' in astratto esposta la persona interessata, che nelle ipotesi disciplinate dall'art. 187-ter e', nel massimo, di 5.000.000 di Euro, in talune circostanze suscettibile di essere elevato fino a dieci volte, con previsione di gravi sanzioni accessorie, per cui sarebbe arbitraria la pretesa del ricorrente di estendere i principi enunciati dalla CEDU alle sanzioni oggetto del provvedimento impugnato, diverse sia per l'entita' dell'importo, sia per l'assenza di misure accessorie, sia perche' solo le violazioni sanzionate dall'art. 187-ter rilevano anche sotto il profilo penale. La resistente ha anche richiamato il principio di stretta legalita' di cui all'art.25 della Costituzione per sostenere che la natura penale di una sanzione e' necessariamente collegata alla sua qualificazione come tale da parte dell'ordinamento. Inoltre per la resistente la Corte Edu ha precisato che l'art. 6 della Convenzione non esige in tutti i casi lo svolgimento di una pubblica udienza, dovendosi valutare in concreto se la sua mancanza implica una compressione del diritto di difesa dell'interessato, nella fattispecie insussistente e comunque non allegato dai ricorrente. Sulla base degli stessi motivi - in particolare negando la natura penale delle sanzioni oggetto del provvedimento impugnato - la Banca d'Italia ha sostenuto l'infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 195 commi 4, 5, 6 e 7 Tuf per contrasto con l'art. 3 Cost. Ha poi negato, richiamando la giurisprudenza della Corte Suprema, che possa integrare una lesione dei diritti dell'Opponente il fatto che la sanzione sia irrogata dalla stessa Autorita' cui e' affidata l'istruttoria. La resistente ha infine contestato la fondatezza, nel merito, di ciascuno dei motivi di impugnazione. In relazione alla questione di legittimita' costituzionale sollevata dal ricorrente, rileva la Corte che la sentenza 4/3/2014 della CEDU non riguarda gli articoli 190 e seguenti del D.Lgs 58/98. Nondimeno la questione appare rilevante e non manifestamente infondata. Nel caso esaminato dalla Corte EDU, i ricorrenti, ai quali erano state applicate dalla CONSOB sanzioni amministrative ai sensi dell'art. 187-ter del D.Lgs 58/98, erano stati sottoposti a procedimento penale e condannati in grado di appello. La Corte ha ritenuto, nella sentenza menzionata, che il procedimento davanti alla Consob disciplinato dal regolamento congiunto del 22 ottobre 2013, che si applica anche ai procedimenti che si svolgono davanti alla Banca d'Italia - non avesse soddisfatto le esigenze di equita' e di imparzialita' oggettiva richieste dall'articolo 6 della Convenzione EDU e che la mancanza di una pubblica udienza nel procedimento di opposizione davanti alla Corte di Appello di Torino costituisse una Violazione del § 1 del medesimo articolo; ha ritenuto inoltre che l'avvio di un procedimento penale per gli stessi fatti oggetto delle sanzioni amministrative integrasse una violazione del fondamentale principio del ne bis in idem, sancito dall'art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione. Tali affermazioni traggono origine da una preventiva valutazione della natura delle sanzioni previste dall'art. 187-ter del D.Lgs 58/98, le quali, benche' definite amministrative dall'ordinamento nazionale, sono da considerarsi, a tutti gli effetti, come sanzioni penali, in ragione della loro rilevante severita', della previsione di sanzioni accessorie, delle loro ripercussioni complessive sugli interessi del condannato. Siffatta valutazione e' inoltre rafforzata dallo scopo chiaramente repressivo e preventivo rintracciabile nella ratio della disciplina, che si salda con quello riparatorio dei pregiudizi di natura finanziaria cagionati dalla condotta, nonche' dalla correlazione delle sanzioni alla gravita' della condotta ascritta piuttosto che al danno provocato agli investitori. Il giudizio della Corte di Strasburgo si pone nella scia di una consolidata giurisprudenza, dalla stessa Corte richiamata nella propria sentenza, che, a partire dalla pronuncia "Engel e altri c. Paesi Bassi" dell'8 giugno 1976, ha fissato alcuni criteri utili ad accertare la sussistenza di una «accusa in materia penale», stabilendo che occorre avere riguardo: 1) alla qualificazione giuridica interna, 2) Alla natura dell'infrazione, 3) alla natura e al grado di severita' della sanzione. Si tratta di criteri alternativi e non cumulativi, per cui affinche' si possa parlare di accusa in materia penale ai sensi dell'articolo 6 § 1, e' sufficiente che la fattispecie sia qualificata come penale rispetto alla Convenzione o abbia esposto l'interessato a una sanzione che, "per natura e livello di gravita'", rientri in linea generale nell'ambito della "materia penale". L'alternativita' dei criteri ermeneutici enucleati non impedisce tuttavia di adottare un approccio unitario allorche' l'analisi separata di ciascuno di essi non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una «accusa in materia penale» (sentenza "Bendenoun c. Francia" del 24/2/1994). Secondo la Banca d'Italia il giudizio della Corte di Strasburgo sulla natura sostanzialmente penale delle sanzioni previste dall'art. 187-ter del D.Lgs 58/98 non sarebbe applicabile alle sanzioni oggetto del presente procedimento, essendo quelle comminate per la manipolazione del mercato molto piu' gravi, oltre che accompagnate da misure accessorie. Ritiene il Collegio che la maggiore afflittivita' delle sanzioni previste dall'art. 187-ter sia incontestabile ma non significativa, in quanto la loro misura non costituisce un parametro di riferimento per l'applicazione dei criteri stabiliti dalla Corte Edu. Non e' dubbio che la gravita' delle sanzioni previste dall'art. 187-ter abbia reso agevole alla Corte il riconoscimento della natura sostanzialmente penale della norma; tuttavia, se si esaminano le precedenti pronunce in materia, si constata che la medesima qualificazione e' stata data, sul presupposto della loro afflittivita', a disposizioni che prevedono sanzioni di gran lunga piu' lievi. Dei tre criteri enucleati dai giudici di Strasburgo ai fini dell'accertamento della sussistenza di una "accusa in materia penale", il primo e' applicabile solo in positivo, in quanto la qualificazione di una norma come penale e' sufficiente all'operativita' delle garanzie previste dalla Convenzione, mentre una diversa qualificazione non impedisce alla Corte di stabilirne l'applicabilita', non potendo ovviamente consentirsi che l'effettivita' delle tutele sia correlata ad un'operazione meramente classificatoria posta in essere da singoli Stati. Il secondo criterio attiene, almeno stando alla sua applicazione nel caso Engel, alla sfera di operativita' della disposizione, essendo stato ivi osservato che la norma penale e' rivolta alla generalita' dei cittadini a differenza di quella disciplinare, che regola la condotta di una cerchia ristretta di individui, assoggettati ad un particolare ordinamento. Il terzo criterio presenta indubbiamente una certa indeterminatezza allorche' la sanzione sia di carattere pecuniario, in quanto l'esame della giurisprudenza della Corte di Strasburgo non consente di individuare parametri di riferimento certi. Nel caso Ozturc c. Germania e nel caso Lutz c. Germania si trattava della irrogazione di non gravi sanzioni pecuniarie conciate ad infrazioni delle norme sulla circolazione stradale, in relazione alle quali tuttavia la Corte ha ritenuto operanti le garanzie della Convenzione per la funzione, ad un tempo preventiva e repressiva, delle norme sanzionatorie, in quanto dirette a dissuadere e nello stesso tempo a reprimere. Il Caso Dubus e' per certi versi simile alla vicenda sottoposta all'esame di questo Collegio nel 1997 la societa' ricorrente Dubus s.a. fu oggetto di un controllo da parte della Commissione bancaria, ordinato dalla Banca di Francia. Il controllo pose in evidenza un certo numero di miglioramenti da apportare all'organizzazione amministrativa e contabile della societa'. Nel 2000 la Commissione bancaria ordino' una nuova ispezione, a seguito della quale la Segreteria generale della Commissione bancaria invio' alla ricorrente una serie di raccomandazioni, chiedendole di regolarizzare la sua situazione con riferimento alle disposizioni regolamentari relative al capitale minimo dei fornitori di investimento. Successivamente, sulla base del rapporto definitivo di ispezione, la Commissione bancaria decise di aprire una procedura disciplinare nei confronti della ricorrente, che si concluse con l'irrogazione di una nota di biasimo. La Corte Edu, nel riconoscere la natura penale della norma sanzionatrice, ha evidenziato che in astratto la societa' sarebbe potuta incorrere nella cancellazione o in una sanzione pecuniaria, misure che avrebbero potuto provocare conseguenze finanziarie rilevanti e che comunque la nota di biasimo era di natura tale da ledere il credito della societa' sanzionata. Nel caso Nicoleta Gheorghe c. Romania, alla ricorrente era stata inflitta una sanzione amministrativa pari a circa 17 Euro per aver turbato la tranquillita' degli altri locatari dell'immobile nel quale viveva. La Corte aveva rilevato che la norma giuridica violata si proponeva di mantenere la pace tra i vicini di casa; in quanto tale, si rivolgeva a tutti i cittadini e non a un gruppo specifico avente un particolare statuto. Inoltre, l'ammenda inflitta alla ricorrente non era finalizzata alla riparazione pecuniaria di un danno ma essenzialmente diretta ad impedire il ripetersi di atti simili. Aveva quindi un carattere punitivo, quale contraddistingue generalmente le sanzioni di carattere penale. Dai precedenti menzionati e in generale dall'esame della giurisprudenza della Corte di Strasburgo si evince un orientamento diretto ad allargare l'area di applicabilita' dell'art. 6 della Convenzione, sebbene, talvolta, con motivazioni non del tutto rigorose e coerenti. Ritiene il Collegio che, ai fini della valutazione della non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale sollevata, non possa escludersi, alla luce della giurisprudenza richiamata, l'applicabilita' dei principi posti dall'art. 6 della Convenzione al procedimento previsto dall'art. 195 D.Lgs n.58/98. Le non lievi sanzioni pecuniarie previste dall'art. 190 del D.Lgs 58/98 (fino ad Euro 250.000,00) non sono infatti correlate alla riparazione di un pregiudizio economico ma hanno natura dissuasiva e repressiva e sono indubbiamente idonee ad incidere gravemente sul patrimonio dei soggetti colpiti e sulla vita e la capacita' patrimoniale delle societa' cui detti soggetti appartengono, in quanto responsabili in solido e quindi soggette, nei casi in cui siano sanzionati, come nella fattispecie, tutti gli amministratori e i sindaci, al pagamento di somme anche di molto superiori al massimo edittale. L'applicabilita' dell'art. 6 della Convenzione comporta la necessita' di verificare se il procedimento previsto dall'art. 195 D.Lgs n.58/98, che stabilisce, in sede di impugnazione davanti alla Corte di Appello, la decisione in camera di consiglio, sia compatibile con le garanzie stabilite dall'art. 6 della Convenzione, segnatamente con il principio della pubblicita' delle udienze. Nella sentenza Grande Stevens c. Italia la Corte Edu, pur avendo ritenuto che il procedimento davanti alla Consob non garantisse pienamente il diritto di difesa degli accusati, ha evidenziato che il rispetto dell'articolo 6 della Convenzione non e' incompatibile con la possibilita' che una pena sia inizialmente inflitta da un'autorita' amministrativa, purche' la sua decisione "subisca il controllo ulteriore di un organo giudiziario dotato di pieni poteri di giurisdizione", quale indubbiamente e' da considerarsi la Corte d'Appello di Torino. Tuttavia, essendo la Corte Edu giunta alla conclusione che nessuna udienza pubblica si e' svolta davanti alla Corte di Appello di Torino e che la Corte di Cassazione, davanti alla quale si e' tenuta una pubblica udienza, non ha le competenze per conoscere il merito della causa, ha concluso per la sussistenza della lamentata violazione dell'art. 6 § 1 della Convenzione, per il quale "Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale". In realta' la Corte, nella propria motivazione, ha affermato, richiamando alcuni precedenti, che l'obbligo di tenere un'udienza pubblica non e' assoluto e che l'articolo 6 non richiede necessariamente la tenuta di un'udienza in tutti i procedimenti, non essendo tale formalita' necessaria nelle "cause che non sollevano questioni di credibilita' o che non suscitano controversie sui fatti rendendo necessario un confronto orale, e per le quali i tribunali possono pronunciarsi in modo equo e ragionevole sulla base delle conclusioni scritte delle parti e del resto del dossier", anche se "il rigetto di una domanda che tende alla tenuta di un'udienza non puo' essere giustificata se non molto raramente". Ha nondimeno ritenuto che nel caso sottoposto al suo giudizio l'udienza pubblica fosse necessaria. E' evidente una certa confusione, nel ragionamento della Corte, tra il principio dell'oralita', posto a presidio della effettivita' del contraddittorio e della piena realizzazione del diritto di difesa, cui fa riferimento, nella sostanza, la motivazione della sentenza quando tratta della necessita' di un confronto orale, ed il diverso principio di pubblicita' dell'udienza, che soddisfa l'esigenza che la giustizia sia amministrata in modo trasparente. La commistione tra i due principi si manifesta peraltro sovente nella giurisprudenza della Corte Edu. Nella sentenza Lorenzetti c. Italia del 10 aprile 2012 la Corte si e' soffermata sulla questione, sottolineando che l'art. 6 § 1 della Convenzione consacra il principio fondamentale della pubblicita' dei dibattimenti giudiziari, il quale "tutela coloro che sono sottoposti alla giustizia da una giustizia segreta, che sfugge al controllo pubblico: contribuisce altresi' a mantenere la fiducia della collettivita' negli organi giudiziari. Attraverso la trasparenza che conferisce all'amministrazione della giustizia, la pubblicita' aiuta a raggiungere l'obiettivo dell'art. 6, par. 1, ovvero il processo equo, la cui garanzia figura tra i principi di ogni societa' democratica". La motivazione illustra in modo chiaro e consapevole il principio di pubblicita' delle udienze, sancito dall'art. 6, della Convenzione, per cui non puo' non suscitare perplessita' il passo successivo, nel quale la Corte afferma che "un'udienza pubblica puo' non essere necessaria, tenuto conto delle Circostanze eccezionali del caso, in particolare quando non sono sollevate questioni di fatto o di diritto che non possono essere risolte sulla sola base del fascicolo disponibile o delle osservazioni delle parti", precisando che "cio' avviene specialmente quando si tratta di questioni altamente tecniche". E' infatti evidente che la possibilita' che la decisione sia presa sulla base della documentazione acquisita e la natura tecnica delle questioni controverse sono fatti che non hanno alcuna correlazione con le esigenze che la pubblicita' dell'udienza e' diretta a soddisfare nella previsione dell'art. 6 della Convenzione; le eccezioni alla regola della pubblicita' sono indicate dallo stesso articolo e sono funzionali alla tutela di interessi - quale la morale, l'ordine pubblico, la sicurezza nazionale, la protezione dei minori - che trascendono le questioni di fatto o giuridiche oggetto della controversia. Ritiene il Collegio che, dovendosi tenere distinti il principio dell'oralita' e quello della pubblicita' delle udienze, ed essendo quest'ultimo l'oggetto della tutela predisposta dall'art. 6 § 1 della Convenzione Edu, debba prescindersi, nella valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, da un esame in concreto della possibilita' che un'udienza pubblica non sia necessaria in ragione delle questioni trattate e della completezza dell'istruttoria documentale. In ogni caso non ricorrono nella fattispecie le eccezionali condizioni alle quali la Corte Edu ha ricollegato la non necessita' dell'udienza pubblica, essendo oggetto di. controversia, cosi' come nel caso Grande Stevens c. Italia, questioni di fatto, oltre che giuridiche. Cio' posto, non puo' revocarsi in dubbio la sussistenza di seri problemi di compatibilita' della procedura prevista dall'art. 195 del D.Lgs 58/98 con i principi stabiliti dall'art. 6 della Convenzione. Secondo l'insegnamento della Corte Costituzionale l'ammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale di una norma presuppone che il giudice dimostri di avere esaminato la possibilita' di una interpretazione tale da renderla compatibile coi parametri costituzionali invocati, laddove l'univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale lo sforzo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimita' costituzionale (Cfr sentenze n. 78 del 2012, n. 26 del 2010 e n. 219 del 2008). Nel caso di specie ritiene il Collegio che l'adozione di misure dirette a rendere pubblica l'udienza di discussione si scontrerebbe con la inderogabilita' della disciplina dei riti processuali. Il procedimento in camera di consiglio previsto dall'art. 195 del D.Lgs 58/98 e' infatti per definizione un procedimento non pubblico; oltretutto quello pubblico si articola a sua volta in diverse sottocategorie, l'applicazione di ciascuna delle quali e' rigidamente regolata dalla legge e non puo' essere rimessa alla scelta del giudice. In relazione al requisito della rilevanza si osserva che il ricorrente, nel sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 195 per carenza del requisito della pubblicita' dell'udienza davanti alla Corte di Appello, ha inequivocabilmente manifestato il proprio interesse allo svolgimento dell'udienza in sede di merito secondo la forma pubblica. Sulla base delle considerazioni esposte il presente procedimento deve essere sospeso con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.